Affrontare l’esame della presunta epoca d’oro della Sicilia musulmana è estremamente complesso. Di solito, in un tripudio di approssimazione storica, viene liquidata come un’epoca di grande avanzamento scientifico, culturale, nonché di concordia e tolleranza fra popoli diversi. In questo modo, da un secolo e mezzo si perpetua il mito di un’epoca mai esistita. C’è stata una dominazione araba della Sicilia ma fu, come la maggior parte delle dominazioni, particolarmente dura per la popolazione autoctona. A volte basta una sola bugia, un solo falso, a sconvolgere completamente la nostra conoscenza di un determinato periodo storico. Si parla ancora oggi della famosa Donazione di Costantino, mentre solo pochi curiosi ed eruditi sono a conoscenza del Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi di Giuseppe Vella. Si tratta di un volume che riporta tutti i fatti avvenuti nella Sicilia Musulmana fra l’inizio del IX e la seconda metà dell’XI secolo. Ed è anche uno dei falsi più clamorosi della storiografia moderna. Il mito della Sicilia Musulmana, isola di concordia e progresso-scientifico culturale, nasce con questo documento, falsificato per intero dal nominato Giuseppe Vella, un gerosolimitano che conosceva il maltese e aveva qualche nozione di arabo. Incredibile a dirsi, fu proprio uno dei suoi maggiori detrattori, lo storico Michele Amari, a perpetuare il mito del periodo d’oro islamico. Vella fu sbugiardato da altri storici contemporanei e successivi (come Bartolomeo Lagumina). Il fisico e storico Domenico Scinà gli dedicò anche un libello d’accusa, L’Arabica Impostura, e lo considerò sempre un vero ignorante, uno che «con accento maltese pronunziava un bastardume di linguaggio arabo, anzi una lingua tutta propria di lui». Come ben scrive la cultrice della materia Fara Misuraca (sull’argomento, vedi anche: Giuseppe Giarrizzo, Cultura ed Economia nella Sicilia del Settecento, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1992): ''Dal codice tradotto dal Vella si evinceva che non erano stati i Normanni a fondare la storia moderna della Sicilia ma gli Arabi. Da qui l’uso politico del “codice” che avrebbe potuto sottrarre all’influenza di Napoli i nobili siciliani. Analizzando questo aspetto dell’impostura riesce difficile credere che il Vella abbia architettato tutto da solo''. Questo falso storico si propagò velocemente attraverso gli scritti di altri storici dell’epoca, e l’opera del Vella ebbe anche la dignità di una sontuosa stampa in tedesco. Fuori dai confini italiani (o, meglio, siciliani) le numerose prove della falsificazione operata da Giuseppe Vella arrivarono con minore intensità e, in alcuni casi, non giunsero affatto, portando anche gli storici europei a rivedere la storia delle conquista islamica della Sicilia. A differenza di Vella, qualificabile solo come cialtrone, Amari era uno storico che sapeva lavorare sulle fonti. Purtroppo però, nella redazione della sua opera sulla Storia dei Musulmani di Sicilia, fu pervaso da un sentimento di odio politico verso i Borbone e il cattolicesimo. La sua vicenda ricorda quella di tanti altri storici e pensatori, italiani ed europei, che fabbricarono de facto la cosiddetta Leggenda Nera. Una visione distorta del medioevo europeo che molti storici moderni si sono lasciati alle spalle. Alla base dell’Epoca d’oro Islamica abbiamo quindi un falso conclamato, quello di Vella, e l’opera di uno storico ben preparato dal punto di vista della ricerca delle fonti e delle competenze linguistiche. Questi però aveva tutta l’intenzione di dimostrare come la linea di governo del Sud, che dai Borbone andava indietro fino ai Normanni, fosse stata meno capace di quella islamica dei secoli IX-XI. Le scuole del neonato Regno d’Italia, di cui l’Amari fu uno dei fautori, attinsero a piene mani da questo corpus. Una continua circolazione di strane concrezioni storiografiche che è giunta quasi intatta fino a pochi decenni fa. Al sentimento antiborbonico si unì infatti la repulsione degli statisti laici verso tutto ciò che riguardava la Chiesa. E il modo migliore per colpire la Chiesa era proprio mostrarne l’oscurantismo rispetto all’altra fede diffusa nel Mediterraneo, l’Islam. Per meglio comprendere le posizioni politiche di Amari, è necessario procedere con un breve excursus. Dopo aver partecipato, appena quattordicenne, ai moti siciliani del 1820-1821, l’Amari fu graziato dai Borbone (a differenza del padre, che fu condannato all’ergastolo). Attorno al 1840 decise di raggiungere Parigi per sfuggire alla persecuzione dovuta alla pubblicazione della sua opera La Guerra del Vespro. Qui incontrò personaggi come Giovanni Berchet e Atto Vannucci (un altro storico di cui farò menzione), tutti uniti da un forte spirito patriottico che tendeva verso un’Italia unita e laica. Spinto dall’interesse per le fonti arabe e interessato a dimostrare che, in fondo, il periodo della dominazione araba non potesse essere stato peggiore di quello romano e bizantino o delle costrizioni imposte dalla Chiesa (Romana e Ortodossa), l’Amari imparò l’arabo grazie all’aiuto di Joseph Toussaint Reinaud. Le sue conoscenze e una continua ricerca delle fonti lo portarono alla redazione della già citata Storia dei Musulmani in Sicilia. Ovviamente non sono il primo che si propone di (quantomeno) mitigare gli aspetti sensazionalistici della Sicilia musulmana. Già Isidoro Carini, gesuita e paleografo siciliano di incredibile competenza (a 32 anni era professore di paleografia all’Università di Palermo) nonché “primo custode” della Biblioteca Vaticana dal 1890, si era espresso in questo senso. Carini scambiò anche diverse epistole con l’Amari, e fra i due c’era grande rispetto e ammirazione. Tuttavia, il primo pensava che quest’ultimo avesse inserito troppe convinzioni personali all’interno dell’opera. Oltre a Carini, fino ad oggi sono stati moltissimi gli storici che hanno meglio delineato il carattere spesso distruttivo della conquista islamica della Sicilia. In un articolo abbastanza recente, lo storico e saggista Paquale Hamel cita le La Sicilia Musulmana (di Alessandro Vanoli) e L’isola di Allah (di Salvatore Tramontana) fra i testi consigliati a chi voglia avvicinarsi all’argomento senza incorrere nei pregiudizi anticlericali. L’intenzione polemica di Amari emerge sin dal primo capitolo, dove etichetta negativamente i secoli di dominazione romana della Sicilia e parla di “rinascita” quando si appresta a trattare il periodo arabo. Arriva addirittura a paragonare quest’ultimo a quello della dominazione greca. Prima di affrontare le intrinseche falsità contenute nel paragrafo di cui sopra, è necessario completare il discorso sulle fonti, in particolare sull’opera di Michele Amari. A sostegno delle sue tesi venne infatti l’amico Atto Vannucci, i cui scritti ebbero anche una certa influenza sui libri di testo delle prime scuole dell’Italia unita, che nel 1856 pubblicò il volume di una cinquantina di pagine intitolato Dei recenti studj sulla antica civilta arabica e della Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Amari. A una lettura superficiale, il documento sembrerebbe una monotona lode all’opera dell’Amari, ma Vannucci in realtà si lascia sfuggire un paragrafo in cui definisce con chiarezza la situazione della popolazione non musulmana di Sicilia durante il dominio arabo. Basterebbe quel “non ebbero libertà” a identificare perfettamente la condizione di completa sottomissione dei dhimmi siciliani, ma Vannucci elenca in maniera abbastanza esaustiva anche gli insopportabili limiti imposti loro dagli arabi. Quando poi elogia Maometto al di sopra di Gregorio Magno, che, pur non abolendo l’istituto della schiavitù, ebbe: un interesse costante a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori della terra, vittime di angherie e di sopraffazioni di ogni sorta (Roberta Rizzo in Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia ,2008). Comprendiamo appieno come l’astio verso la Chiesa e lo status quo istituzionale fossero il vero motore di queste opere storiografiche ottocentesche sulla Sicilia musulmana. Sappiamo dunque che una certa storiografia ha parzialmente modificato la realtà storica della Sicilia musulmana, mostrandone solo i buoni traffici commerciali o i testi poetici prodotti. Queste tesi sono divenute verbo divino fra la seconda metà del XIX secolo (Amari fu ministro dell’istruzione nel governo Farini) e la prima del XX secolo. Ad oggi, si tende a dare pochissimo spazio alla condizione del dhimmi siciliano o al fatto che l’intera popolazione siciliana si adoperò per la cacciata degli arabi e ne spazzò via quasi ogni traccia (cosa che, di solito, non avviene quando un popolo è felice e soddisfatto della propria condizione). penso sia importante far comprendere quale fosse davvero la condizione dei siciliani cristiani. Come tutte le altre popolazioni non-musulmane conquistate dagli arabi, questi assunsero la condizione di dhimmi. Tutti i beni amministrati dai funzionari bizantini o siciliani passarono in mano musulmana assieme a buona parte di quelli ecclesiastici. Coloni e schiavi che lavoravano le terre rimasero al loro posto, ma sotto nuovi padroni. Amari ci tiene a precisare quasi subito che i dhimmi godevano di un diritto di proprietà pieno e indiscriminato, alla pari dei musulmani, ma nelle note accenna al fatto che altri studiosi sono più orientati a pensare che in diversi casi ai dhimmi non rimanesse che l'usufrutto.
Ai dhimmi rimaneva anche la possibilità di effettuare lasciti testamentari e concludere contratti con altri dhimmi o musulmani, ma dovevano sottostare ad alcune limitazioni. Amari parla, in questo caso, di “condizioni ragionevolmente chiamate essenziali“. I dhimmi non potevano parlare con irriverenza del Corano, del Profeta o dell’Islam in generale, non dovevano disturbare donne musulmane, i soldati, né fare proseliti. Erano inoltre sottoposti a “tre maniere d’aggravi: di finanza (1), di polizia civile (2) e di polizia ecclesiastica (3).”
- Parliamo di due tasse, quella sulla persona, la Jizya, e quella sui beni immobili, la Kharaj. La prima è la più conosciuta; si tratta infatti della tassa con cui al dhimmi veniva garantita la “protezione” dai nemici esterni e il godimento delle proprie cose. Era, in sostanza, la somma che dovevano pagare i sottomessi e ammontava a 48 dirham l’anno per i più abbienti, 24 per il ceto medio e 12 per i nullatenenti. La Kharaj invece era un’imposta sulla rendita presunta del fondo o della proprietà immobiliare posseduta dal dhimmi. Con le dovute variazioni regionali, la Kharaj ammontava al 20% circa della rendita presunta. Alcune fonti arabe narrano che la tassazione dei due imperi abbattuti dagli Arabi, quello Romano Orientale e quello Sassanide, era talmente alta da far propendere gli abitanti per i nuovi conquistatori. In realtà la situazione fu differente da luogo a luogo. In The History of Iran from Ancient Times to the End of Eighteenth Century (1967), l’orientalista russo Yakubovski scrive: Una comparazione fra i documenti pre-Islamici e quelli del periodo islamico rivela che gli Arabi conquistatori aumentarono senza eccezione la tassazione sulle proprietà terriere. In questo modo, alzarono le tasse per i campi di grano a 4 dirhams l’acro e quelle per i campi d’orzo a 2 dirhams l’acro, mentre durante il regno di Cosroe era di 1 dirham per ogni acro, a prescindere dal tipo di coltivazione. Durante l’ultima parte del Califfato Umayyade, i Persiani sottomessi pagavano agli Arabi una kharaj (la tassa sulla terra di cui abbiamo detto) pari a 1/4-1/3 di quanto avevano prodotto.
- Le proibizioni imposte ai dhimmi erano piuttosto pesanti, ma anche in questo caso Amari sembra giudicarle di poco conto, e si limita a elencarle meccanicamente. Era loro vietato: portare armi; andare a cavallo; utilizzare selle per montare asini o muli; costruire case che pareggiassero o superassero in altezza quelle dei Musulmani; bere vino in pubblico; piangere i morti durante le processione che portava al cimitero; (per le donne) entrare nei bagni pubblici quando ci fossero donne musulmane o rimanervi all'ingresso di queste ultime. Avevano inoltre l’obbligo di: portare un segno distintivo sulla porta di casa, sui vestiti (compresa una cintura di cuoio o lana) e utilizzare copricapo di diversa foggia e colore; cedere il passo ai Musulmani incontrati sulla medesima strada; quando ci si trova in gruppo, alzarsi all’entrata o uscita di un Musulmano. Si tratta di umiliazioni piuttosto stringenti, volte a stabilire una rigida separazione fra conquistatori e sottomessi. Amari ne ammette la gravosità, ma nel paragrafo successivo sostiene che, di fronte queste limitazioni “civili”, i divieti di tipo religioso erano piuttosto lievi. Le proibizioni religiose: costruire nuove chiese o monasteri (sulla restaurazione di quelle più antiche, solitamente vietata, sembra che i siciliani avessero un’esenzione); suonare le campane; leggere il vangelo a voce alta (non potevano esserci canti o processioni); portare croci in pubblico; parlare di Gesù Cristo con i Musulmani; fare proseliti. Per Amari potrebbero sembrare restrizioni di poco conto, ma in realtà considerarle in questo modo vuol dire non riuscire a immedesimarsi nella dimensione collettiva della spiritualità, molto sentita nel Medioevo (ma non solo). Certo, le chiese rimasero aperte e si poteva pregare in modo sommesso anche in casa, ma doveva essere ben chiaro chi fosse il padrone (musulmano) e chi il sottomesso (cristiano). Cambiamo (parzialmente) argomento e parliamo del secondo punto più battuto da una certa storiografia, quello della presunta “rivoluzione scientifica” (agricoltura, astronomia, medicina, arte, ecc.) portata dagli Arabi. Si tratta del mito che più di ogni altro ha influenzato la storiografia e, più in generale, qualsiasi lavoro dedicato alla Sicilia Musulmana. Mi riferisco, ovviamente, al presunto fiorire di scienza, poesia e arti per tutto il periodo della dominazione araba della Sicilia. Amari si occupa di questi argomenti nel capitolo XIII del II volume. Già dopo poche righe, il suo risentimento verso il cristianesimo esce fuori in tutta la sua forza, quando parla dei musulmani dopo la conquista normanna. Il paragrafo dedicato all'agricoltura, il meno letto e più citato della sua opera, si apre allo stesso modo. Amari si rifiuta di ritenere che gli Arabi, per lui agricoltori migliori di Romani e Bizantini, avessero potuto iniziare a disboscare la Sicilia. Secondo Amari gli sciocchi sono, senza paura di smentita, i Romani. A ogni modo, la coltivazione degli ulivi, già diminuita durante il periodo romano, cessò quasi del tutto sotto gli Arabi; i vigneti si ridussero in maniera significativa. Entrambi i fatti sono confermati dall'importazione, nella Sicilia araba, di olive dall’Africa e di vino dal regno di Napoli. Di sicuro, gli arabi iniziarono la coltivazione degli agrumi, della canna da zucchero e introdussero il baco da seta. Questi aiutarono il commercio isolano, ma è importante sottolineare come la Sicilia fosse già ricca di risorse e di porti commerciali. Crocevia e snodo fondamentale del commercio marittimo, la Sicilia aveva mantenuto l’eredità greco-romana in tutta la sua forza originaria, anche perché non fu mai occupata dalle popolazioni c.d. barbare. Amari cita anche Ibn al-Awwam, agronomo andaluso del XII secolo, e il suo enorme compendio sull'agricoltura, come esempio del grande contributo data a quest’ultima dagli Arabi, senza menzionare che egli non fece altro che mettere insieme diverse citazioni dai Geoponica di Cassianus Bassus e di fonti arabe che riportavano materiale più antico. La questione relativa all'agricoltura araba in Sicilia è solo un piccolo tassello della “Rivoluzione Agricola Araba”. Facciamo un passo indietro, anzi, in avanti. Nel 1974 viene pubblicato un articolo di Andrew Watson in cui quest’ultimo conia il termine “Arab Agricultural Revolution“. Le sue conclusioni sono del tutto strampalate, ma sono gli anni’70, la Guerra dello Yom Kippur è appena passata: elaborare una superiorità storica dell’Islam sui capitalisti occidentali (USA e Israele) sembra una buona idea. Professori delle scuole superiori e universitari di tutta Europa lo incensano, in un grottesco sfoggio di parzialità intellettuale, scordandosi all'istante delle capacità agricole greco-romane. A nulla, ripeto: a nulla, valgono le pubblicazioni accademiche successive. Per evitare ragionamenti astratti, prendiamo ad esempio la questione dei sistemi d’irrigazione. Con l’avvento della storiografia anticlericale ottocentesca, la creazione del sistema di irrigazione agricola della Spagna orientale viene spostata in avanti di qualche secolo, dal periodo romano a quello arabo. Ancora oggi, sette o otto accademici su dieci metterebbero la mano sul fuoco su questa conclusione. E perderebbero la mano. Eppure, oltre a decine di altri testi più risalenti, basterebbe consultare Irrigation Agrosystems in Eastern Spain: Roman or Islamic Origins? di W. Butzer e altri; Annals of the Association of American Geographers, Vol. 75, No. 4 (Dec., 1985), pp. 479-509. Questo testo mostra in modo inequivocabile l’origine romana dei tanto osannati sistemi d’irrigazione arabi. Per quanto riguarda l’allevamento, alcuni propagatori del mito della Sicilia Musulmana hanno interpretato le parole di Amari in modo del tutto errato. Cavalli, muli, bovini, ovini erano già ampiamente diffusi, e gli apicoltori continuarono a lavorare senza soluzione di continuità per tutto il periodo bizantino. Amari premette che per il commercio ci sono pochi documenti e di questo incolpa scrittori e problemi di archiviazione (mentre quando parla di documenti romano-bizantini, non fa lo stesso ragionamento). Il commercio con le coste nordafricane rimase stabile e consistente per tutta l’epoca romana e bizantina (forse ci fu un abbassamento fisiologico durante il dominio vandalo). La cesura avvenne solo quando la costa nordafricana cadde in mano islamica e vi fu ripresa solo quando gli arabi si stabilirono anche in Sicilia. Dare il merito delle capacità commerciali siciliane a chi le aveva, inizialmente, compresse, è una forzatura storica che fa il paio con quella della salvaguardia della cultura greca (che gli arabi assimilarono parzialmente dopo aver distrutto la parte orientale dell’Impero Romano). L’amore smodato di Amari per lo splendore della Sicilia Musulmana emerge a chiare lettere anche in un passi successivi: arti, lusso, cultura, genio… La creazione di questa dicotomia fra Mondo Romano-Germanico (e Cristiano) Decadente e Mondo Arabo Islamico Ricco e Acculturato, di cui ci siamo trascinati le false vestigia fino ad oggi, è completata in questo passo. L’Amari, come molti altri storici passati e presenti, ha una concezione distorta del passaggio dal Mondo Romano a quello Arabo, dall’Evo Antico al Medioevo. Sembra quasi che, deposto Romolo Augustolo (476 d.C.), decine di milioni di cittadini romani abbiano calato il mantello a ruota sulle spalle, si siano chiusi in un castello e abbiano iniziato a bruciare le streghe. E che a rompere questo buio senza speranza, scacciato solo dopo un migliaio di anni con il Rinascimento, ci siano state solo la scienza e la cultura araba. Con altri articoli vi dimostrerò la falsità di tutto ciò. E tuttavia, l’Amari continua. E ci spiega come la prosa e, soprattutto, la poesia araba vincano a mani basse (“senza contrasto”) nel confronto con quelle partorite dalla cultura greco-romana. Per quanto riguarda le scienze antiche, ossia quelle che gli arabi preservarono parzialmente dopo aver annientato l’Impero Romano d’Oriente e quello Sasanide, sappiamo che un manipoli d’intellettuali le coltivò nei territori islamici, ma per quanto riguarda la Sicilia Musulmana non ci sono molte testimonianze. Su questo argomento, Amari è più onesto e sottolinea come a mantenersi costanti fu lo studio delle “scienze coraniche“, rinvigorite dalla metafisica e dalla dialettica occidentale, mentre le scienze antiche ebbero un brevissimo periodo di splendore, durato circa centocinquant'anni, fra IX e X secolo. Che alcuni matematici, medici e astronomi operarono in Sicilia è fuori di dubbio, ma una certa storiografia continua a far apparire gli arabi di Sicilia come una schiatta di scienziati impegnati tutto il giorno a redigere mappe, fare esperimenti e costruire meraviglie architettoniche. E, lo ripeto, si tratta di una falsità. D'altronde è lo stesso Amari a lasciarsi sfuggire che filosofi e scienziati (spesso persiani o di origine ebraico/cristiana) venivano osteggiati anche nel c.d. Periodo d’Oro. D’altronde, lasciando per un attimo la Sicilia, sappiamo che Muhammad ibn Zakariyā Rāzī (865 – 925 d.C.), scienziato persiano, si esprimeva in questo modo sull’Islam: ''Se ai musulmani viene chiesto di provare la validità della loro religione, loro si accendono, perdono il senno e versano il sangue di chiunque provi a confrontarsi con loro sulla questione. I Musulmani proibiscono la speculazione razionale e cercano di ammazzare i loro avversari. E’ per questo motivo che la verità è stata completamente messa a tacere e nascosta''. Razi fu un fisico e chimico eccezionale, definito da George Sarton come “il più grande fisico islamico e medievale”. Guarda caso, fu aspramente criticato dai suoi colleghi, soprattutto per la sua posizione sull’Islam e su Maometto. Secondo molti era vicino al Manicheismo e alla cultura greco-romana, persiana e indiana.In molti citano Muhammad al-Idrisi come esempio delle avanzate capacità topografiche e geografiche degli arabi siciliani, ma spesso omettono un particolare: al-Idrisi non era originario della Sicilia, fu Ruggero II a invitarlo a corte per ottenere i suoi servigi. Viaggiatore espertissimo e ottimo cartografo, al-Idrisi redasse, nel 1154 (a 54 anni circa) la famosa Tabula Rogeriana. Quanto alla medicina arabo-Siciliana, Amari ammette che non ci sono arrivate notizie di molti medici di fama, e, quasi dispiaciuto, inverte l’onere della prova sostenendo che, anche se non abbiamo testimonianze di medici siciliani, ciò non vuol dire che non ci siano stati. Tornando alla Sicilia, è necessario sottolineare ancora un aspetto già menzionato: quando parliamo di scienze islamiche, in massima parte parliamo di lavori relativi alla lettura, esegesi, narrazione e storia del Corano o delle tradizioni sulla vita del Profeta. E qui Amari, involontariamente, lo dimostra in modo chiaro quando dedica sette pagine (pgg. 464-471 del II volume di Storia dei Musulmani di Sicilia) a matematica, astronomia e medicina araba e più di settanta a scienze coraniche, grammatica, giurisprudenza (islamica) e poesia (pgg. 472-545 dello stesso volume).
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